L'abruzzese: uomo di montagna, stregato dal mare
L'autorevole storico e antropologo Emiliano Giancristofaro delinea un profilo degli abitanti della terra "forte e gentile", pronti al sacrificio ed estasiati dal bello
Chi è oggi l'abruzzese? Parte da questa domanda la mia riflessione che voglio condividere con voi che in questi giorni vi apprestate a vivere l'entusiasmante esperienza del Torneo Nazionale di Calcio a 5 del Credito Cooperativo. Nel corso del Novecento, il “passaggio al nuovo” si è certamente accompagnato a inciampi, scarti, esclusioni sociali, diffidenze verso l’ambiente e, per converso, a diffidenze verso l’industria manifatturiera, che emarginata nel nostro territorio. Dopo il “miracolo economico”, quando il benessere cominciava a coinvolgere strati sempre più ampi di popolazione, si è consumata una fuga dalla campagna e dall’artigianato in favore del “posto fisso” in azienda. Negli ultimi anni, grazie ad una maggiore attenzione e consapevolezza versi i beni culturali locali, è iniziata una tendenza a riscoprire le attività tradizionali, rendendole più innovative e compatibili con i bisogni della modernità, con l’approccio giusto di stare coi piedi nel luogo e la testa nel mondo.
Nell’economia autarchica del passato, la partecipazione diretta alla vita comune era fondamentale in Abruzzo e rappresentava una certezza culturale, oltre a creare l’occasione per lo scambio economico. La vita comune era storicamente caratterizzata dalla simbolica coesistenza di mare, campagna e montagna. Per la maggior parte, gli insediamenti, fin dal Medioevo, si sono arroccati sulle alture per sfuggire alla malaria, proliferante in pianura e nelle foci dei fiumi. Le montagne, insomma, sono fonte di preziosa acqua e sono una presenza forte, che dominano sul paesaggio, sul clima, sulle componenti biologiche e sulle attività umane.
Ciò che caratterizzava maggiormente l’economia montana era la pastorizia che, strutturata sul pendolarismo della Transumanza, teneva gli uomini lontani nei mesi invernali, quando, per procurarsi il foraggio, bisognava recarsi a valle o addirittura fino al verde Tavoliere delle Puglie. La popolazione maschile della zona montana, dunque, praticava percorsi ampi, e l’esodo stagionale determinava un grande travaso umano verso la pianura, con scambi e confronti di usi, abitudini e mentalità. Qui i montanari trovavano terre poco abitate, paludose e fertili ma insalubri, poco adatte ad ospitare insediamenti stabili, bensì attraenti per il lavoro saltuario di uomini bisognosi e coraggiosi al tempo stesso, la cui opera era necessaria per realizzare lavori di bonifica, di aratura, di trebbiatura.
Il calendario economico era basato sui ritmi della semina, del raccolto e dello stoccaggio dei prodotti per l’inverno e per la vendita (cereali, legumi, ortaggi, frutta, olio, vino), e sulle grandi transizioni di maggio e settembre, che si svolgevano sotto la protezione della Madonna, di San Nicola di Bari e di San Michele arcangelo.
Per millenni, furono i paesi della montagna a dirigere i processi economici, possedendo il capitale e incamerando gli utili, e il baricentro psicologico rimaneva dentro il paese per via di un preponderante investimento nella vita comunitaria locale. Anche per gli emigranti, l’obiettivo del viaggio era quello di lavorare e guadagnare per ritornare nella comunità originaria, a causa dello stretto legame col luogo di partenza; tra i motivi psicologici maggiori spiccavano, a livello simbolico, la mitica e religiosa bellezza del paesaggio abruzzese (in particolare della montagna, della campagna e del fiume), la relazione con la madre, il distaccato rispetto per la figura paterna, il culto per il santo patrono e per la celebrazione della sua festa, l’imitazione di un modello genitoriale che, per via delle prolungate assenze dei maschi adulti, raramente si esprimeva nella dimensione familiare di compresenza delle due figure e che, per questo, accettava come normale il modello dell’emigrazione temporanea maschile.
La civiltà della montagna fu tutt’altro che rozza e arretrata, come dimostrano i centri storici e monumentali di Sulmona, L’Aquila, Lanciano, Atri, Teramo, Guardiagrele, Palena, Orsogna, Casoli, Atessa.
Le cittadine che si affacciano sul mare hanno maturato una differente tradizione culturale: Ortona e Vasto, San Vito e i borghi marini di Giulianova, Silvi, Pineto, Roseto, Martinsicuro, Francavilla, Fossacesia, Torino di Sangro, Casalbordino e San Salvo, sviluppatisi alle foci dei fiumi Saline, Tordino, Vomano, Foro, Moro, Sangro, Osento, Sinello e Trigno, a partire dal XV secolo seppero integrare commercianti e profughi balcanici e nordafricani. In particolare, Ortona e Vasto, ospitando porti con vere e proprie marinerie, intrattennero vere relazioni commerciali coi paesi dell’altra sponda, importando persone, manufatti, stili di vita e tecniche, come quella della conservazione del pesce.
Attraverso il mare, dunque, venne sperimentata la porosità culturale tramite le alterità etniche. L’Adriatico aveva solo in apparenza chiuso i contatti con l’Oriente, e tutto da sfatare è il proverbiale isolamento delle coste abruzzesi, che avevano invece vissuto intensi rapporti commerciali attraverso il mare, arteria economica e socio-culturale per una popolazione che, pressata dalle montagne appenniniche, nel mare trovò il modo per integrare la sua economia. Dai porti di Ortona e Vasto, con un viaggio di 120 miglia (di sole 100 miglia è la distanza con Spalato e Sebenico; ancor più vicine sono le isole), si inviavano verso Ragusa "vino, grano, olio; mentre pesce salato, salumi, spezie, e schiavi - ossia persone - venivano dall’altra parte"[i]. Della importanza di tale canale sono testimonianza non solo la nomina di consoli di Ragusa a Ortona, ma anche il fatto che Venezia fu motivata dalle ricche fiere di Lanciano a difendere il piccolo porto di San Vito contro i turchi.
La mancanza, nel territorio, di una città-faro che fungesse da volano e da orientatore culturale è forse l’unica nota negativa, come notava Gennaro Finamore, originario di Gessopalena ed etnologo di livello internazionale, che nel 1886 coglieva importanti peculiarità della sua terra, al fine di stimolare, ieri come oggi, il progresso sociale ed economico della popolazione. "Mai città, mai corti che irraggiassero all’intorno una potente azione civile. Fatta qualche eccezione, comunelli sempre in istato di reciproca indifferenza, per similarità di condizioni; ovvero, più che dalle distanze, divisi dal difetto o dalla insicurezza delle strade, nonché dalle naturali barriere di monti, di boschi e di fiumi. Ora, come nel passato, l’influenza de’ nostri principali centri di attrazione lontani più risentita che non quella delle nostre città, sempre piccole e poco aristocratiche. La vita municipale nostra, per centinaia di anni - aduggiata dal baronaggio, dal chiericato secolare e regolare e dal brigantaggio - grama e stentata: i germi della nostra operosità, non pochi né spregevoli, fruttificanti in gran parte dove il cielo era meno nemico: scarsa la popolazione, negletta l’agricoltura, quasi nullo il commercio: per lo più, poveri e rozzi i mestieri e le arti: sola oasi benigna in mezzo ad un ambiente avverso, la casa»[ii].
Ma la storica attitudine al sacrificio degli abruzzesi fu uno degli antefatti del successo estero degli emigranti, tra i cui esponenti (o discendenti) sono annoverati gli scrittori italo-americani Pietro Di Donato e John Fante, oriundi rispettivamente di Vasto e di Torricella Peligna; l’anarchico Severino Di Giovanni, nato a Chieti ed emigrato in Sudamerica; il pugile Rocky Marciano, di Ripa Teatina; il lottatore Bruno Sammartino, di Pizzoferrato; il cantante Perry Como, di Palena; il pilota Manuel Fangio, di Castiglione Messer Marino.
Conoscere questo passato aiuta a capire l'abruzzese di oggi.
Emiliano Giancristofaro
[i] C. Marciani, Le relazioni tra l’Adriatico orientale e l’Abruzzo nei secoli XV, XVI, XVII, in Scritti di Storia, a cura di E. Giancristofaro, Lanciano, Rocco Carabba, 1998, p. 523. Dall’altra sponda provenivano, oltre agli schiavi, i commercianti, che frequentavano le fiere di Lanciano e i paesi di maggiore produzione agricola, come Francavilla, Ortona, Vasto; spesso gli stessi padroni dei navigli si trasformavano in commercianti e si stabilivano nel Chietino. Come sintetizza il dispregiativo schiavoni, con cui si indicavano tutti coloro che provenissero dall’altra sponda[i], tra questi stranieri abbondavano gli schiavi, ovvero gli abitanti delle coste balcaniche rapiti dai corsari turchi e venduti come prigionieri.
[ii] G. Finamore, Introduzione a Canti popolari abruzzesi, Lanciano, Rocco Carabba, 1886, rist. anastatica, 1976, p. 14 ss.